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martedì 1 marzo 2011

Post scolastico

Il videoproiettore fa ormai parte integrante del bagaglio del musicista elettronico. Negli ultimi vent’anni, in effetti, sembra essersi codificata una forma standard del concerto elettronico: i musicisti sul palco, con computer portatili, piatti, mixer o altri strumenti, e alle loro spalle uno o più schermi su cui vengono proiettate immagini modulate in tempo reale.
Da una parte questa forma agisce su un livello diffuso e massificato. È il caso dei visuals, le immagini proiettate dal cosiddetto . Dalla fine degli anni ‘80, dapprima nei circuiti più alternativi della  poi in quelli più commerciali delle discoteche, la figura del visual jockey rappresenta l’equivalente visivo del dj. Come il  mescola brani musicali, così il manipola le immagini a tempo di musica.

D’altra parte però, questo dispositivo concertistico ha funzionato e funziona anche nella variegata prateria della performance audiovisiva sperimentale, sebbene qui sia stato spesso e volentieri messo in discussione. Siamo nel territorio del cosiddetto Live Media, all’incrocio tra suono elettronico e immagine video, in stretta risonanza con un contesto più ampio di arte audiovisiva digitale che comprende installazioni, DVD, Sound Art, forme di architettura e spazializzazione sonora. I concerti audiovisivi sperimentali si svolgono soprattutto all’interno di festivals – in Italia su tutti il Netmage di Bologna e Dissonanze di Roma, attivi dal 2000 - e circuiti espositivi (tra cui anche grandi istituzioni museali, come la Tate di Londra).
Già a partire dai primi anni ‘80 alcune esposizioni internazionali hanno investigato, sotto l’ampio cappello della Visual Music, il campo secolare delle relazioni tra musica e arti visive. Tuttavia, se si focalizza l’obiettivo alla ricerca dei rapporti tra musica elettronica e arti visive, bisogna passare per la nascita della videoarte. Un filo collega le prime sperimentazioni video degli anni ‘60 e ‘70, soprattutto quelle legate alle indagini sul segnale elettronico, ad alcune delle più significative esperienze di audiovisivo digitale degli ultimi quindici anni. Questo filo porta a ripensare la storia della videoarte a partire dal suo funzionamento audiovisivo. In effetti, le definizioni di carattere “videocentrico”, come “videoarte”, “videoinstallazione”, “videoscultura”, lasciando poco spazio alla componente sonora, fanno quasi dimenticare che la videoarte è nata sotto il segno del suono e della musica elettronica, che alcuni fra i primi videoartisti (Paik e Viola, per esempio) venivano dalla musica elettronica, che i primi videosintetizzatori sono stati concepiti sul modello dei sintetizzatori audio.
Due sono i punti che mettono in stretto legame la prima fase del video con alcuni aspetti dell’audiovisivo contemporaneo.
Il primo risiede nella possibilità di manipolazione delle immagini in tempo reale: è con il video che è diventato possibile “suonare” le immagini con un certo margine di improvvisazione. Le prime televisioni astratte di Nam June Paik – all’Exposition of Music-Electronic Television di Wuppertal, 1963 - erano concepite come strumenti musicali con cui allargare radicalmente il concetto di musica indeterminata di John Cage, in contrapposizione alla musica minimalista e seriale che dominava la scena elettronica dell’epoca. Su questa linea di “rinnovamento ontologico” della musica, Paik realizzerà il celebre Tv-Cello (1971), che è la concretizzazione letterale della sua concezione musicale dell’immagine elettronica: tre monitors di diverse dimensioni sostituiscono la cassa del violoncello. Percuotendo le corde del violoncello la performer Charlotte Moorman può “suonare” e alterare le immagini degli schermi.

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